La lista delle accuse si apre con il racconto della situazione nel Gran Chaco, enorme ecosistema in parte semiarido tra Argentina, Bolivia, e Paraguay. Qui il WWf ha dato il suo via libera ai progetti della multinazionale Monsanto per l’estensione della monocultura della soia, con l’uso di sostanze chimiche come i fosfati e di piante geneticamente modificate. In Indonesia, invece, l’associazione raccoglie donazioni per la protezione degli orang-utang del Borneo. Ma i soldi raccolti non si sa che fine facciano visto che nessun progetto è stato avviato. In compenso la filiale locale, in cambio di sostanziosi finanziamenti, ha dato il suo bollino di iniziativa «ecologicamente sostenibile», riconoscimento utilissimo da spendere presso i consumatori occidentali, all’attività di una società che disbosca la foresta primaria per sostituirla con coltivazioni di olio di palma.
In India a lamentarsi sono gli ecologisti locali. Il Paese è per il Wwf una specie di fiore all’occhiello: dal 1974 ha avviato un progetto per la protezione della tigre. Il problema è che col tempo gli animali si sono trasformati solo in una preziosa fonte di reddito. Nella riserva che dovrebbe tutelarli l’associazione ha creato strutture turistiche e acquistato oltre 150 jeep con le quali i turisti più ricchi (la visita costa 10mila euro) possono scorrazzare in lungo e in largo contribuendo, secondo le accuse, alla distruzione dell’habitat naturale. L’elenco potrebbe continuare e all’immagine ecologista dell’associazione non giova che il suo vicepresidente internazionale, un americano, intervistato nel documentario, si dichiari risolutamente a favore delle coltivazioni geneticamente modificate.
Di fronte alla gragnuola di colpi l’associazione si difende citando alcuni errori fattuali e rivendicando la sua filosofia di fondo, ispirata al dialogo con le forze economiche e le imprese: noi non siamo fondamentalisti come Greenpeace, è il ragionamento. E del resto per l’associazione accuse di «collaborazionismo» con l’establishment industriale non sono nuove. Da sempre il vertice internazionale vede la presenza di manager dell’economia e di esponenti di alcune delle famiglie più aristocratiche d’Europa. Agli occhi dei duri e puri dell’ecologismo militante il peccato originale è addirittura nel nome di alcuni dei soci fondatori, come il principe Bernardo d’Olanda e il principe Filippo d’Edimburgo, che ne è stato a lungo presidente. Il marito della regina Elisabetta è stato tra l’altro un famoso cacciatore. Tanto da giustificare la malignità di qualche rivale: vogliono salvare gli animali, certo. Per ucciderli con una bella battuta di caccia di quelle di una volta.
Fonte: ilgiornale.it
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