CINGHIALI, EMOZIONI E SOPRANNOMI (Ottobre 2.000)
La “cacciata” al cinghiale in Slovacchia è diventata ormai una consuetudine per il nostro gruppo. Una “Armada “di una ventina di amici a cui quasi ogni anno si aggiungono volti nuovi, apportando nuove caratterialità, abitudini, colori e… soprannomi. Si, soprannomi; quasi sempre ben accettati e sempre sorprendentemente ben applicati dallo specialista Ferruccio che si è argutamente sin dall’infanzia dedicato a simile diletto.
Bisogna doverosamente premettere che i nomignoli escogitati dal predetto sono sempre stati ispirati da episodi strettamente legati all’attività venatoria o da comportamenti peculiari del destinatario e, comunque, come l’esperienza ha sin qui dimostrato, destinati a durare una vita.
Il sottoscritto gode dal tempo dei calzoni corti di un diminutivo che soltanto gli amici di vecchia data conoscono ed usano: “Bicio”, come diminutivo di Fabrizio, evidentemente troppo lungo e dotato di “zeta” notoriamente mal pronunciate nel dialetto milanese, tuttavia pervicacemente modificato in “Biciovic” dai tempi delle nostre prime esperienze di caccia in Yugoslavia.
Tremo al pensiero di quale tremendo epiteto sarebbe potuto essere il mio nuovo nomignolo in virtù dell’avventura venatoria di questo fine Ottobre 2.000.
Come ormai consueto viaggiamo in auto con partenza dalla villa patrizia dei due fratelli Enzo e Ferruccio, tradizionali organizzatori della caccia e frequentatori così assidui della Repubblica Slovacca da dire che ormai “hanno fatto il sentiero”. I “Nobili” partiranno in aereo e ci raggiungeranno via Budapest o Bratislava: Tra questi lo “Zio” ( Ferruccio dice che ha l’aspetto da zio e “zio” è rimasto!). Qualche tempo fa assiduo della compagnia era il “Gallinone”, così nomato per la sua carnagione ed il pelo rossastri come quelli di una gallina padovana (prima di incanutire).
Sorprendente la “velocità” nel disbrigo delle formalità doganali alla frontiera slovacca di Petrsalka (ce la caviamo in un’oretta con la solita burocrazia e le pesanti gabelle per l’ingresso delle armi) anche grazie alle ormai vecchie conoscenze tra i poliziotti che, gira e rigira, sono sempre gli stessi ed hanno imparato a conoscere l’Armada vista la quantità di matricole di fucili che debbono controllare ed il numero di permessi di ingresso da compilare.
Arriviamo a Lucenec in tempi ragionevoli e scendiamo al solito Hotel accolti, ormai, da vecchi clienti.
Immediato contatto con la nostra guida, un simpatico guardacaccia che non si è potuto sottrarre alla rinominazione di “Gozzone” dovuta alla tracheostomia permanente a seguito di un incidente di caccia che gli ha semidistrutto la laringe. Fattostà che anche l’interprete slovacca lo chiama benevolmente così… per carità, a sua insaputa!
La prima giornata di caccia è comunque densa di emozioni; sparano un po’ tutti, senza trofei degni di nota ma con tableau di tutto rispetto in quanto a numero di prede.
Il fato tragicomico per un cacciatore è comunque in agguato.
Passa a qualche centinaio di metri da me e comunque fuori tiro anche per il compagno della posta accanto, un branco di una cinquantina di cinghiali, (femmine, bestie di compagnia, bestie rosse e piccoli) di cui avverto lo scalpitare sul manto di foglie secche del sottobosco ed infila l’unico varco lasciato sguarnito in prossimità del Tatra (camion militare 6 X 6 attrezzato con carrozzone tipo autobus e tanto di stufa a legna con comignolo sul tetto) transitando a due passi da Vlasta, la sbigottita interprete, che si trova quasi circondata da bestioni, bestie e bestiole di tutte le stazze.
Un colpo del “portoghese”,piazzato dal “NOVIZIO” Giosuè, ferma una grossa femmina sbrancata.
Avvezzo ai tempi di latenza ed al solito ordine di arrivo alle poste in sequenza di volpi, caprioli e cervi, cinghiali e, parecchio distanziati, i cani, non tengo conto della consistenza numerica del branco che è appena transitato e che potrebbe aver contrastato la braccata dei segugi tanto da averli alle calcagna.
Vedo tra i faggi una sagoma nera ad una ottantina di metri guizzare tra i tronchi e fermarsi repentinamente dietro un albero lasciando in vista la parte anteriore. La carabina va automaticamente in mira (senza ottica) e lascio partire rapidamente un colpo al cinghialetto valutato intorno ai 25 Kg (la smania di sparare!). Il proiettile colpisce la pianta dietro cui la fiera era seminascosta ed il mio "cinghialetto si dirige scodinzolando verso la mia posta prendendo via via le forme di uno Slovensky Kopov nero, completamente ignaro dello scampato pericolo. Arrossisco violentemente di vergogna ed ispeziono accuratamente il segugio, evidentemente di buon carattere, che nel frattempo mi ha raggiunto e non disdegna di farmi un po’ di feste. Sospiro di sollievo constatando l’incolumità del collaboratore. Risarcimento a parte, non mi sarei tanto facilmente perdonata una simile sciocchezza.
Tanta è la mia buona fede che, al termine della battuta e subito prima della consueta cerimonia di chiusura della giornata di caccia con falò ed esposizione del carniere, racconto il fattaccio e mi guadagno il pubblico ludibrio con frizzi e lazzi irripetibili. Dopo tutto me lo sono anche meritato e chissà che non si tratti di un inconscio desiderio di confessione ed espiazione di un grave peccato per un cacciatore rispettoso dell’etica venatoria quale mi ritengo.
Ma i lazzi non sono evidentemente finiti perché Enzo, con fare grave e preoccupato, chiama tutti a raccolta con un’aria da cospirazione e, fingendosi ignaro di tutto, spiega a mezza voce che i “cagnari” si sono lamentati per un cane malconcio forse per una ferita di arma da fuoco. Quasi cado come un boccalone nella trappola ma mi riprendo subito con una sghignazzata liberatoria seguito da tutta la compagnia.
Forse ho schivato il battesimo con nomignoli tipo: “MAZZACANI” (che per un medico non sarebbe proprio invidiabile) o: “CINGHIALCHEBUIA” (cinghialecheabbaia) nel colorito idioma lombardo del nostro fustigatore eponimico.
Il secondo giorno fucilate sempre copiose con belle bestie e, finalmente, un bel trofeo.
Lo guadagna il Bianchi figlio con preciso doppio di .30 06. Raggiante il nembrotto, mentre serpeggiano malcelati sguardi di benevola invidia.
La sera alla consueta cerimonia di chiusura della giornata di caccia si ripete il rito per il cacciatore che ha abbattuto il suo primo cinghiale. Il Bianchino si protesta (a ragione) ormai veterano ma, nonostante le sue compiaciute proteste, viene semidisteso prono sulla belva e si becca tre simboliche vergate sul sedere: la prima per S.Uberto, la seconda per il cinghiale, la terza per il Capocaccia tra le fragorose sghignazzate della numerosa compagnia.
Il 31 Ottobre la battuta conclusiva della “cacciata”.
Si cambia ancora zona. Questa volta più rilevata ma con i soliti faggeti e querce. A tratti un sottobosco pulito, coperto da un folto tappeto di foglie gialle. Poco distante la folta macchia mista che poco lascia allo sguardo ansioso di veder sbucare la bestia nera con breve preavviso di sfrascare, rami spezzati e sordi grugniti.
Mi tocca una posta tra le prime perché borbotto stizzito per il caldo della scarpinata non troppo ripida ma senza tregua. Non fa freddo e sono relativamente troppo coperto ma non posso fermarmi per togliermi qualcosa di dosso facendo perdere tempo al dispiegamento di tutti i cacciatori.
Il posto è comunque bello. Sottobosco pulito, con una buona visione tra i tronchi grigi dei faggi e la spia delle foglie gialle che avvertono dello scalpitare di un animale in arrivo e, qualora si trattasse del “nero”, uno stupendo stacco cromatico.
Prendo posizione sul ciglio dello stradello, largo qualche metro, liberando la mia zona di calpestio dalle foglie con ampie passate di piedi e fissando mentalmente la mia zona di tiro estraendo ideali “pioli” analogamente al quadrante di inibizione di fuoco delle quadrinate Browning 12,7, ricordo indelebile della naja in artiglieria contraerea.
In alto c’è il “CICIO” ad una settantina di metri, che non vedo per una leggera curva dello stradello, sotto il “BERGAMASCO” che ho intravisto tra il frascame.
Infilo il caricatore e lascio andare in chiusura l’otturatore dell’Eckler & Koch 770 in .308 Winchester che si trascina fragorosamente in camera un bossolo Norma con 48 grs di WW 760 ed una Nosler Partition da 180 grani accreditata al mio cronografo di 750 m/sec.
E… speriamo, perché i puristi con l’espress sono li in agguato pronti a criticare quelli che cacciano con il “catenaccio” e…poi… con quel “calibrino” da caprioli…
Avevo notato ad otturatore aperto, tirando il grilletto, un certo “filare” dello stesso, ed una certa pigrizia al ritorno in posizione di riaggancio della catena di scatto. Ma ero troppo preso dall’imminenza della caccia per dare il giusto peso al fatto. Dopo tutto conoscevo bene quella carabina e l’avevo usata per una quindicina d’anni senza problemi e con adeguata manutenzione.
Si odono alcuni spari, lontani: i soliti fortunelli che, ovunque li piazzi, trovano cinghiali suicidi!
Passano lunghi minuti con qualche improvviso sobbalzo per un capriolo che silenziosamente e con leggerezza taglia saggiamente la corda. Una volpe, guardinga e dalla maestosa coda, mi passa incredibilmente vicina, quasi incurante della mia presenza.
Come sempre succede, alla faccia delle foglie, complice qualche inevitabile distrazione, ecco apparire all’improvviso il Nero. E… che Nero! Non credo ai miei occhi: è proprio grosso! Enormemente sviluppato al garrese, con una folta criniera, basso dietro e, da quel che ricordo della prima immagine, difese di tutto riguardo che, quando riesci a ben distinguerle, devono essere proprio ben sviluppate.
E’ arrivato di soppiatto da destra, al piccolo trotto, senza far granché rumore, ostentando la sicurezza che gli deriva dalla sua mole e dal suo rango. Me lo trovo a non più di 25 metri di traverso e, senza accorgermi, lo sto traguardando dagli organi di mira della carabina e, considerata la breve distanza e la relativa lentezza, piazzo il mirino sul grifo, tiro il grilletto trattenendo il respiro: NULLA!
Il grilletto è piantato! Certamente è in sicura! Eppure…. Un rapido sguardo: il pallino rosso è lì che mi fa l’occhiolino. Ma allora cosa cavolo succede? La belva, intanto mi transita davanti per una ventina di metri , gira a sinistra verso lo stradello e rallenta per salire il ciglione che porta sullo stesso, esattamente nella mia direzione. Mi sento gelare per la concitazione e la stizza: mi capita immeritatamente il “cinghiale di una vita” e mi trovo con un fucile che non spara!
Tutto ti passa per la mente in un millisecondo: forza e rapidità delle parole pensate.
Poi altrettanto veloce, anche se razionale, è il riflesso proveniente dall’inconscio venatorio: arretro l’indice dietro il grilletto e lo spingo in avanti, come per montare uno stecker monogrillo, avvertendo nettamente l’aggancio. Un nanosecondo dopo parte il colpo alla “comediavolopuoi” perché tra qualche metro il nero sarà nella zona interdetta al fuoco in direzione della posta più bassa. Mi sembra di ricordare, nel tumulto emotivo, che non abbia fatto una piega incassando il colpo (se l’ho preso).
Mentre attraversa il viotolo per dirigersi sull’erta che mi sta alle spalle, ripeto la manovra di “monta dello stecker” e, mentre il Nero “svalica” il dosso, lascio partire con maggior convinzione, ma non saprei dire con quanta precisione, un secondo colpo.
Ricordo la groppa nera del bestione eclissarsi al di la della gobba di terra colorata dalle foglie cadute mentre odo un frastuono come se rami secchi e fogliame venissero travolti dalla furia della fuga o…chissà, dalla caduta della mia preda.
Mi trattengo, per disciplina, dal seguire l’istinto che mi spingerebbe a percorrere quelle poche decine di metri sufficienti a guardare al di là del “colle che tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude” ma il rischio di prendersi qualche fucilata come un pollo indisciplinato è reale. Mi metto il cuore in pace ed aspetto.
Di li a poco (o non tanto poco) arrivano in fila due Slovensky Kopov con fare deciso e naso a terra sulla traccia precisa del mio Nero, attraversano lo stradello e svalicano. Tendo l’orecchio nella speranza di udire i segugi abbaiare a fermo su una bestia ferita: niente. Proprio niente.
Poi il primo torna indietro e prende diritto verso l’alto dello stradello, non senza indirizzarmi uno sguardo che valuto come di canino disprezzo per il bipede con il bastone tuonante che non ha fatto la sua parte, eppoi ha sempre da dire…lui!
Il secondo non torna e mi costringo ad immaginarmelo mentre si accanisce sfogando la sua smania selvaggia sulla spessa pelle dell’animale caduto. Passano alcuni minuti… un’ora… forse, poi arriva uno dei battitori, con l’irriverente cane al guinzaglio, al quale spiego o tento di spiegare in tedesco, che mostra di capire in piccola parte, l’accaduto. Mi fa cenno di avere inteso e, dopo avermi offerto un sorso di grappa infernale da un bottiglione che cava dallo zaino, diamo un’occhiata al di la del colle: niente!
Mi consolo pensando che nessuno ha assistito al fattaccio e che il mio onore venatorio possa essere conservato. Ma non mi basta.
Spostamento su scassatissime fuoristrada GAZ e ripresa della battuta sul versante attiguo della vallata nella stessa direzione della precedente con paesaggio molto diverso: folta macchia con radure, forteti intercalati a faggi sparsi e cespuglioni che negano alla vista le poste vicine. Le raccomandazioni (sacrosante) alla prudenza si sprecano.
Ci sgranano via via sul percorso circondando l’area prescelta. In basso, su una strada forestale, ricordo di aver visto PELUCHE (speriamo che non legga questi appunti perché non so come reagirebbe all’appellativo con il suo frizzante caratteraccio toscano, appellativo puntualmente applicato dopo l’abbattimento nel Quebec di un black bear di ridotte dimensioni) e l’ASTUTUS FURBUS (in latino maccheronico o grossus ma che rende bene l’idea). Dopo una spolmonata di salita si ferma Umberto poi io e, più avanti, inghiottiti dalla boscaglia, il CICIO e uno dei Bergamaschi (così genericamente definiti quando non espressamente chiamati per nome).
Fucilate un po’ da tutte le parti. I risultati si potranno vedere solo a battuta conclusa.
Restiamo alle stesse poste mentre i battitori guadagnano ancora una volta l’altro versante del vallone per iniziare una battuta a rovescio.
Ancora fucilate insistenti con alcuni doppietti fulminei giù lungo la strada che mi ricordano quelli dell’Astutus.
Non vedo cinghiali ma mi diverto con una bella volpe che, inaudito, mi gira intorno impertinente con una fuga un po’ pigra, risentita per averla disturbata nell’esercizio delle sue funzioni.
E’ tardo pomeriggio quando scendiamo alla spicciolata lungo il pendio accidentato frammisti ai battitori scambiandoci i primi commenti.
Cicio è tutto eccitato. Si è trovato davanti, a brevissima distanza, un bell’orso bruno di ragguardevoli dimensioni, monco dell’estremità di una zampa anteriore (forse tragico ricordo di qualche crudele tagliola che già ho avuto modo di vedere da queste parti).
Mi racconta di essere rimasto interdetto senza sapere che fare e con il cuore in gola per l’emozione derivante anche dal pensiero delle grane che si sarebbero potute presentare qualora fosse stato costretto a difendersi se attaccato da un bestione come quello che generalmente non è reputato di un buon carattere.
Stesso racconto dal Bergamasco che ha avuto la medesima avventura subito dopo e che presenta un (ora facile riderci sopra) tremore generalizzato irrefrenabile che lui stesso ridicolizza.
Giunti sulla strada si legge del malumore sui volti dei presenti: Astutus Furbus ha seccato un cane. Il fattaccio è presto detto: esce dal folto al gran galoppo una grossa scrofa ed il nostro la inchioda con un preciso colpo di .30 06. Lo Slovenko Kopov che la insegue d’appresso, subisce lo stesso trattamento con la medesima micidiale precisione.
Atmosfera pesante per la figuraccia che inevitabilmente farà l’Armada.
Chiedo dove sia il povero cane e mi becco una rispostaccia da Peluche che, non ben informato: - dove vuoi che sia! In braccio a Gozzone che lo starà piangendo come un figliuolo! -
Tristezza pesante anche al di la delle sagaci ed ironiche parole.
Raccolti alla spicciolata dalle solite scassatissime fuoristrada, vengo invitato a salire su una vecchia Gaz di produzione sovietica dove stanno accatastati tre cinghialoni di ragguardevoli dimensioni. Annaspo e barcollo per stare in equilibrio precario sulla ribaltina della macchina con la carabina che mi impaccia e finisco tragicamente con un braccio in mezzo ad un ammasso di pelo ispido intriso di urina di verro. Non si tratta proprio di quel che dir si suole acqua di colonia e l’odore acre e nauseabondo che mi porto addosso mi sembra un po’ lo scherno finale del cinchiale.
Facciamo ritorno alla casa di caccia dove ci verrà offerto il tradizionale gulash che qui chiamano “pusta” e, come mi spiega il decano dei cacciatori locali (un distinto ultrasettantenne dai modi gentili e signorili che mi racconta in un chiaro tedesco come sia di discendenza germanica) essere stato cucinato da lui stesso con carne di cervo e di cinghiale: molto gustoso e ben piccante:quasi calabrese!
Ma la sorpresa più gradita mi viene da uno dei Bergamaschi , Silver che mi sogghigna da sotto il suo largo cappello con il suo pesante accento: - Hai visto che bel cinghiale hai fatto? Lo hanno trovato morto i battitori vicino alla tua posta.- Quasi non credo ai miei occhi e rimango esterefatto davanti a quella montagna di pelo nero e due grosse zanne contrastate da coti di pari dignità, allineata con compostezza ed il rispetto che da queste parti si porta al selvatico abbattuto, accanto ad altre cinque fiere di dimensioni non molto inferiori.
Brindisi, foto di rito e consegna dei trofei ai fortunati cacciatori mediante detroncazione del musetto recante le difese.
La partenza per casa è per il mattino successivo di buon’ora. Ma le sorprese non sono finite.
Ho ficcato il muso con il trofeo in un sacchetto di plastica pregustandomi il momento dell’estrazione e misurazione delle zanne dopo adeguata bollitura appena giunti a casa.
Macchè! Dopo 800 km qualcuno mi sussurra all’orecchio che alla casa di caccia il Bergamasco mi ha furtivamente sottratto il trofeo, sostituendolo con il suo.
Incazzatura permagna seguita da perentorie intimazioni telefoniche di restituire il maltolto, pena chissà quali rappresaglie e tremenda vendetta. Presto sbollita la rabbia, specialmente dopo esser venuto a conoscenza delle ludiche, quanto affettuose intenzioni, di riconsegnare al pollo sottoscritto, che reputano non aver molta dimestichezza con i trofei di cinghiale, le zanne adeguatamente cerate e montate su elegante scudetto in occasione della prevista cena nel ristorante di Germano.
Quest’ultimo, cuoco e cacciatore, una sorta di bonario gigante che, al corrente della burla, sogghignava beffardo e sornione, mentre con la sua mole mi riempiva la macchina durante il viaggio di ritorno.
Il trofeo, di cm 23,5/22,5, montato su uno degli splendidi scudetti del PERQUANTO, il compianto artista incisore del legno, amabilmente bollato per il frequente uso di tale interiezione, fa bella mostra di sé al posto d’onore sul caminetto del mio soggiorno.
So che, per il tempo che da viver daranno a me le stelle, rivivrò, guardandolo, quelle emozioni, magari velate dalla tristezza di avere ucciso il legittimo proprietario, addolcendo l’inevitabile nostalgia nel tremulo bagliore della fiamma del focolare, pensando alle cacce passate e a quelle a venire mentre Luna, la mia piccola westy, mi guarda scodinzolando accovacciata sul suo esclusivo lato del divano.
Con molta nostalgia...
Oizirbaf
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