Mi ero appena congedato e stavo cercando lavoro; o meglio: il lavoro l’avevo trovato, ma ero in attesa che mi chiamassero, e la chiamata si faceva attendere.
Così passavo il tempo cacciando, pescando e facendo passeggiate in montagna.
Nino era più grande di me, aveva circa l’età di mio padre.
Piccolo di statura, ma di corporatura robusta, era forte e pieno di energia.
Abitualmente di poche parole, diventava loquace quando si parlava di caccia, di cani, di pesca; in generale di tutto ciò che riguardava la natura e gli animali.
Scoprii più tardi che nel secondo dopoguerra era stato uno degli ultimi cacciatori di professione, oltre che addestratore con una passione smodata per i pointer e i setter.
In quel periodo però si era appassionato alla caccia agli acquatici ed era titolare di un appostamento fisso molto particolare.
In una grande cava abbandonata da anni, ormai un vero piccolo lago, aveva costruito una piattaforma galleggiante, sulla quale, completamente mascherato da canne di palude, aveva costruito un capanno dotato di feritoie. Queste feritoie non erano usate per sparare, ma per sorvegliare il chiaro antistante e il gioco dei richiami.
Per sparare si usciva su una specie di balconcino sul quale potevano stare comodamente due cacciatori, ma anche tre.
Da una specie di tettoia scendevano strisce di juta che servivano a nascondere le persone, senza impedire loro la visuale. Per sparare al volo bastava fare un mezzo passo avanti e si aveva campo libero. Per arrivare al capanno si usava una canoa, che non veniva però spinta da remi: per evitare ogni rumore in avvicinamento, Nino aveva predisposto un cavo sommerso: bastava afferrarlo per far muovere la barca e spostarsi senza alcun rumore, mantenendo sempre il capanno tra la barca e il gioco dei richiami, in modo da non allarmare gli uccelli eventualmente posati sull’acqua. Giunti all’isolotto galleggiante, la barca restava nascosta dalla mascheratura, ed era facile entrare nel capanno senza rumore. Naturalmente la barca serviva anche per recuperare gli uccelli uccisi e ribattere quelli feriti, in tal caso usando ovviamente una normale pagaia.
Non solo: nella parte inferiore della struttura, Nino aveva approntato i rifugi per le anatre da richiamo, dotati di scivoli che permettevano agli animali di scendere in acqua o di risalire all’asciutto, dove trovavano anche abbondante mangime.
La sera Nino predisponeva il gioco: i richiami vivi avevano i movimenti limitati da un’apposita imbragatura, tranne quelli che sapeva di poter lasciare completamente liberi avendoli abituati a non allontanarsi più di tanto dalla struttura; mentre gli stampi, diversi per numero e specie a seconda del periodo, venivano disposti secondo la sua esperienza.
E di esperienza Nino ne aveva da vendere anche in materia di richiami a voce: non usava richiami di nessun tipo, usava solo la sua voce, e riusciva a ingannare benissimo quasi ogni specie di anatre.
In particolare con le alzavole era imbattibile: quelle più ingenue, di passo, venivano alla voce come cagnolini ammaestrati.
Sparare sparava bene, con il suo fido Browning col calcio all’inglese, ma era un gentiluomo e mi lasciava sempre l’onore del primo colpo. Solo odiava le mie cartucce: io usavo delle Legia Star nere, con piombo nichelato del sette e del cinque; mentre lui usava delle Baschieri con, se non erro, “solo” 34 grammi di piombo del sei.
Capitavano soprattutto anatre tuffatrici: moriglioni soprattutto, ma non mancavano germani, fischioni, mestoloni, alzavole e marzaiole, secondo la stagione.
Nino aveva poi una passione per gli svassi: quando qualche bell’esemplare si avvicinava al capanno, lui prendeva il binocolo e passava dei quarti d’ora a rimirarlo, commentando ammirato, sottovoce, l’eleganza e il piumaggio dell’animale.
Spesso la sera mi telefonava a casa: “Vieni domani in tesa? Mi aspetto un bel movimento di passo.”, diceva; oppure si lamentava “Non gira niente, ma se non hai di meglio da fare vieni, almeno prendiamo freddo in compagnia”.
Abitavamo in zone diverse della città, per cui ci davamo appuntamento in un certo bar, uno dei pochi aperto a quegli orari, non perché apriva presto, ma perché chiudeva tardi; e prendevamo un caffè prima di avviarci.
Ricordo che all’epoca iniziavano a trasmettere le prime reti TV private e a quell’ora di notte giravano trasmissioni che oggi definiremmo “porno soft”, ma che all’epoca facevano scandalo.
Una mattina nel bar il televisore acceso trasmetteva l’immagine di ragazze più o meno nude, in atteggiamenti pressoché osceni.
Nino alzò gli occhi, guardò lo schermo, poi si rivolse a me con fare stupito e in dialetto disse:”Così spogliata non ho mai visto neanche mia moglie!”. Era un’anima candida e quelle cose lo scandalizzavano, oltre a sorprenderlo.
Qualche tempo dopo per me arrivò la chiamata al lavoro e così diradai molto le uscite a caccia: non sempre me la sentivo di alzarmi alle tre di notte, così più volte declinai gli inviti di Nino.
Lui ci restava male, ma capiva e non si offendeva: continuava ad invitarmi e quando andavo con lui eravamo contenti.
Oggi ripenso spesso a Nino: io sono quasi vecchio e lui chissà….
A quelli che pensano che la caccia sia solo predazione, uccisione, bramosia, vorrei dire che a caccia ho conosciuto persone come Nino: buone, intelligenti, semplici, innamorate della natura e della vita.
Non significa nulla lo so….ma forse sì.

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