La legge nazionale ha reso un cattivo servizio definendo giuridicamente “caccia” anche il prelievo illegale nonché la cattura non autorizzata.
Caccia è, secondo la legge, qualsiasi atto, anche tentato, di manipolazione fisica di alcune specie di mammiferi e uccelli, che li privi stabilmente o temporaneamente della loro libertà.
Tuttavia nessun cacciatore se la sentirebbe di affermare che togliere di mezzo un astore piombato in un pollaio (per farsi giustizia da sé) oppure derubare un pellegrino delle sue uova per allevarne i piccoli siano forme di caccia. Prelievo illegale, va bene. Ma nobile arte, caccia, proprio no. E in effetti non è possibile dar loro torto.
Possiamo chiarire meglio il concetto di caccia, pur in senso restrittivo, seguendo questi punti che sono caratteri distintivi dell’attività venatoria:
- il divertimento (attività ludica);
- la tecnica speciale;
- i rituali.
Il divertimento
Non si va a caccia perché lo ha ordinato il medico. Se il prelievo di un soggetto faunistico è economia o lavoro (per esempio l’eliminazione degli storni da un frutteto) non è caccia.
L’attività venatoria comporta un certo qual piacere, una tensione emotiva, un desiderio passionale di prendere un determinato animale. Non dobbiamo a questo punto farci fuorviare dal concetto negativo che, spesso, il termine divertimento porta con sé. Almeno nella nostra cultura.
Divertirsi significa troppo spesso fare le cose in modo superficiale, con poca intensità. Ma ciò è sbagliato perché bisogna essere seri. Così pensano in molti.
Dire “lo fa per divertimento” è una condanna inappellabile.
Eppure il divertimento è la marcia in più degli organismi intelligenti. Anche gli animali si divertono. Il lupo piange forse quando caccia? E il nostro cane?
Al di là della definizione di intelligenza, resta il fatto che in psicologia è noto che la capacità di giocare e divertirsi molto è una dote umana nobile, utile, importante e necessaria.
Divertirsi è allontanarsi momentaneamente da ciò che siamo. La caccia è allora un ripristino transitorio di ciò che ancora c’è di animale in noi.
Questo recupero della ferinità, questo richiamo della foresta non dovrebbe dispiacere tanto agli animalisti più integrali.
Il cacciatore fa paura a molti “cittadini”, forse perché in essi intravedono ancora un legame arcaico con un mondo rifiutato. Che temono. Il cacciatore è diverso da loro: entra ed esce nel selvaggio, è capace di varcare la soglia della bestialità, di ridivenire per un certo tempo animale per ritornare poi nella società umana. Per forza fa paura. E se si portasse dietro, nel mondo civile, quelle stesse violenze, passioni e tensioni che gli hanno permesso di vincere nella foresta? La foresta è lo spazio iniziatico dove scomparire temporaneamente, ma necessario ed indispensabile proprio per riaffermare, emergendone, la propria umanità. Sono veramente umane le persone che vivono, crescono e muoiono nelle nostre città, senza mai aver visto, provando piacere, un cervo o uno scoiattolo?
Divertirsi nel nostro caso significa cambiare, ricordarsi della propria natura animale. Ma tornare poi uomini. Come nel gioco si ridiventa bambini senza rinunciare ad essere, di nuovo e purificati, adulti.
Non è indispensabile andare a caccia per varcare la soglia della bestialità. Si può farlo anche in altri modi. Osservare, scoprire, percorrere in silenzio e con rispetto la natura. Tutti i punti di vista vanno bene, basta conservare.
La tecnica
Attenzione. La tecnica è il correttivo indispensabile alla naturale bestialità e violenza della caccia.
Il problema intuito da molti cacciatori ma mai bene espletato, è che la caccia non deve portare a uno strapotere sulla selvaggina. Quando le distanze fra uomo cacciatore e animale preda sono enormi non c’è caccia, come nel caso del fagiano pronta caccia. Non si tratta di non avere una via di scampo, dato che l’uomo cerca sempre e comunque di avvantaggiarsi sulla preda, come del resto anche il lupo. Si tratta di non esagerare la supremazia o di rinunciare addirittura quando la differenza è oggettivamente enorme. Per esempio cacciare le lucertole. E’ caccia se il predatore è un bambino. Non lo è se si tratta di un adulto. E’ solo tiro a segno.
E questo vale appunto se le prede sono troppo facili, abbondanti e confidenti. Si rinuncia, ci si creano difficoltà proprio per creare quel giusto rapporto di potere, recuperando valori di selvaggio.
E selvaggio deve essere. Per questo sono diseducanti quelle forme di prelievo corrente dove d selvatico non c’è più nulla.
Il cacciatore più sensibile lo avverte, ne è conscio e cerca di recuperare il proprio senso della selvaticità. Ma non vi riesce perché quello spazio non consente il cambiamento speciale e fecondo dall’uomo all’animale e di nuovo all’uomo. A fagiani pronta caccia si è solo uomini. Troppo uomini. Totalmente superiori e onnipotenti che non può esserci empatia con quegli animali. Sono solo bersagli, polli colorati.
Nulla di sbagliato, ma un’attività che non è definibile come caccia e che si dovrebbe fare solo e soltanto in appositi centri. Non nella natura.
I rituali
La seconda correzione alla naturale aggressività della caccia sono i rituali. Essi sono necessari e indispensabili proprio perché la caccia non è una forma economica di sostentamento, ma recupero di animalità. La tecnica è importante per armonizzare il potere del predatore sulla preda, ma non basta. E’ necessario che tra cacciatore e selvatico vi sia un rapporto di vicinanza emotiva, di empatia. Empatia significa capire ciò che altri provano, immedesimarsi.
Immedesimarsi nell’animale selvatico, quasi mai personalizzato come il domestico per cui si prova affetto, non impedisce di cacciarlo, pur comprendendo che esso può provare paura, dolore, sofferenza. L’empatia permette di premere il grilletto, ma con rispetto. Prima e dopo.
Bisogna farsi perdonare. Quell’animale che ha dato tanta gioia non è un pezzo di carne, un trofeo, un reperto. E’ simbolicamente parte della nostra natura selvaggia in parte modificata, ma che deve essere onorata, fatta rivivere nel pensiero e nel ricordo.
Un rituale è un insieme di atti, gesti, posture, abiti e parole che imprimono ad una situazione una certa importanza e solennità.
Fra i cacciatori di ungulati di formazione mitteleuropea i rituali sono complessi e codificati. Sconcerta piuttosto l’assenza di rituali nelle forme di caccia nazionali e tradizionali. D’accordo, non la parata, la distesa e il discorso ufficiale del capo caccia. Ma perché non solennizzare con un momento di raccoglimento quelle due o tre beccacce, quel fagiano o quella lepre?
Appoggiati a terra, con le piume e il pelo lisciati, e noi in piedi con il capo coperto. Mentre il cacciatore più autorevole loda, critica, rincuora. Farebbe male alla caccia?
In conclusione. La definizione di caccia quale prelievo ludico-sociale basato sull’empatia tra uomo ed animale e dotato di tecniche non invasive e rituali adeguati sembra, pur in senso riduttivo, la migliore che oggi possiamo offrirci quale punto di partenza per una matura riflessione sulla nobile arte.
) ho un dubbio che mi affligge circa le date per i...
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